Etichetta Barolo

E’ uno dei più grandi vini rossi d’Italia conosciuto in tutto il mondo, è piemontese e nasce dalle pregiate uve del nebbiolo che cresce nelle Langhe: il Barolo DOCG

Nella sua Naturalis Historia[1] Plinio il Vecchio dice che fra le tribù dei Ligurum celeberrimi ultra Alpes c’erano gli Statielli (Liguri Statielli o Stazielli).

Queste erano le popolazioni autoctone che abitavano il territorio compreso fra le attuali provincie di Asti, Cuneo, Savona ed Alessandria.

Secondo la tradizione furono loro ad introdurre qui la viticoltura; successivamente i Galli d’Oltralpe diventarono i maggiori estimatori del vino di queste terre.

Anche i Romani ne constatarono l’ottima qualità, tanto che Giulio Cesare, al ritorno dalla guerra gallica, si fermò ad Alba (l’allora Alba Pompeia) per portarsene un po’ a Roma.

Oggi quel vino prodotto nei comuni di Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba ed in parte del territorio dei comuni di Monforte d’Alba, Novello, La Morra, Verduno, Grinzane Cavour, Diano d’Alba, Cherasco e Roddi ricadenti nella provincia di Cuneo si chiama Barolo ed è fra i più prestigiosi vini rossi italiani.

Vigneti delle Langhe La Morra
Paesaggi delle Langhe (La Morra)

E si chiamano Langhe quel meraviglioso paesaggio collinare nel quale il Barolo DOCG nasce, dal 2014 inserito dall’Unesco assieme a Roero e Monferrato fra i siti Patrimonio dell’Umanità.

Abbracciano due province, quelle di Asti e quelle di Cuneo, e in dialetto piemontese il termine langhe indica proprio le colline[2]; l’uva sovrana di queste terre è il nebbiolo e il Barolo DOCG è ottenuto esclusivamente da questo vitigno.

Il nebbiolo si chiama così probabilmente per la presenza di pruina sulla buccia degli acini maturi, tali da farli sembrare ricoperti di ‘nebbia’, oppure perché la sua maturazione tardiva coincide con la stagione delle nebbie sulle colline di Langa.

Nebbiolo uva
Grappoli di uve nebbiolo (Fonte: www.ivinidelpiemonte.com)

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Le prime notizie di un vino chiamato Nibiol si trovano in un documento del 1266 nel quale si parla di un vigneto posto nei dintorni di Rivoli, vicino Torino[3].

Solo successivamente appare a Canale e nell’Astigiano e, in seguito, anche attorno ad Alba. Nei primi anni del Seicento Croce elenca le varietà di uve a bacca nera coltivate in Piemonte iniziando proprio dal nibiol.

In seguito ne parlano molti autori elogiandone l’eccellenza soprattutto in Piemonte, ma anche in Valtellina (e in epoca recente anche in Oltrepò Pavese).

Tra la metà e la fine dell’Ottocento, grazie a illustri ampelografi, il nebbiolo è definitivamente dichiarato vitigno principe delle Langhe.

Le Langhe vigneti
Le Langhe, sito Patrimonio dell’Umanità Unesco

Del nebbiolo sono stati identificati tre biotipi principali: lampia, michet e rosé (quest’ultimo, anche se simile al nebbiolo, sarebbe però una varietà diversa che sta pian piano scomparendo).

Nonostante sia coltivato soprattutto qui, il nebbiolo è presente in altre zone del Piemonte ed è conosciuto con altri nomi.

Il più noto è spanna nelle province più a nord, a sud nei dintorni di Ivrea e sulle falde della Serra diventa picot téndre (picot tenero) volgarizzato in picotendro.

Anche se è chiamata nebbiolo, non ha nulla a che vedere con essa l’uva coltivata nel Vercellese e nel Novarese (che invece è croatina) o con quella del Tortonese (che è un dolcetto).

Infine, nelle zone alpine del Piemonte, ben distinto dal nebbiolo è il cosiddetto nebbiolo di Dronero.

Il nebbiolo ha trovato nei luoghi di produzione del Barolo DOCG la sua zona di elezione e di massima espressione qualitativa, ma anche nel Roero, nel Barbaresco e nell’Alto Piemonte sì producono ottimi vini da questo vitigno.

Il nebbiolo è presente fuori regione: in Valtellina, dove si chiama chiavennasca, e in Franciacorta (Lombardia), nella bassa Valle d’Aosta (chiamato anche picoutener), in Abruzzo, Basilicata e anche in Sardegna (dove lo chiamano nebiolo per distinguerlo da quello piemontese).

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Rientra, in purezza o combinato, nelle DOC piemontesi Boca, Bramaterra, Fara, Lessona, Carema, Ghemme, Nebbiolo d’Alba, Roero e Sizzano (Piemonte), nella DOC Valtellina e nelle DOCG Barolo, Barbaresco e Gattinara.

Nonostante il suo polimorfismo varietale, del nebbiolo possiamo dire che generalmente presenta un grappolo di taglia medio-grande o grande, di forma piramidale, alato e allungato e piuttosto compatto.

L’acino è medio-piccolo, rotondo o ellissoidale con una buccia sottile ma consistente, molto pruinosa e di colore violaceo scuro.

E’ una pianta a maturazione lenta, predilige zone con elevate somme termiche e buona luminosità.

E’ la prima vite a germogliare e l’ultima a lasciar cadere le foglie con la duplice conseguenza di essere molto esposta alle condizioni ambientali ma anche di poter esprimere una personalità più complessa e unica.

Matura tendenzialmente tardi, ovvero nella seconda metà di ottobre e talvolta la vendemmia si protrae anche alle prime giornate di novembre.

Il Barolo è per gli italiani un vanto enologico e un tesoro che si cela dentro ogni singola bottiglia d’annata; gli ettari vitati per la sua produzione sono stati suddivisi in comune, zona, sottozona, vigneto e parcella ricalcando il modello francese.

Fino alla metà del Settecento il Barolo non era il vino che conosciamo oggi; lo testimoniano i diari di viaggio di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti d’America.

Nel 1797, durante il suo soggiorno all’Hotel d’Angleterre a Torino, Jefferson assaggiò un Barolo definendolo “Quasi amabile come il morbido Madeira, secco al palato come il Bordeaux e vivace come lo Champagne”.

Un vino che quasi sicuramente all’epoca era vinificato alle basse temperature dei mesi autunnali, durante i quali era lasciato fermentare all’aperto; l’azione dei lieviti era inibita lasciando così un residuo zuccherino con possibili rifermentazioni.

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Il Barolo moderno inizia a fare la sua comparsa attorno al 1830 grazie ai Marchesi Falletti, all’enologo francese Louis Oudart e al Conte Camillo Benso di Cavour.

La storia vuole che la moglie del marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo[4], Juliette (o Giulia) Colbert de Maulevrier[5], dopo la morte del marito prese le redini di tutti i suoi possedimenti.

Per gestire i vigneti chiamò il grande enologo Louis Oudart il quale applicò le metodologie colturali delle uve francesi per produrre il Barolo.

Questo vino divenne ben presto molto popolare nelle corti d’Europa e anche il re Carlo Alberto di Savoia lo volle assaggiare; la marchesa gliene inviò ben 325 carri.

Ognuno dei carri trasportava una botte per ogni giorno dell’anno meno i 40 giorni di Quaresima; fu così che alla corte di Torino il Barolo venne definito ‘vinum regum, rex vinorum’[6].

Carlo Alberto di Savoia, innamoratosi del Barolo, acquistò terreni sia a Verduno che a Pollenzo affidandoli al generale Francesco Staglieno, enologo appassionato di vini francesi.

Successivamente l’altro nobile piemontese che consacrò il successo del Barolo fu Camillo Benso, conte di Cavour.

Diventato sindaco di Grinzane, Cavour ingaggiò anche lui Oudart per la cura del suo vigneto; il Barolo diventò un vino completamente secco, non abboccato, da bere nelle grandi occasioni.

Alla morte di Juliette Colbert il patrimonio di famiglia venne lasciato all’Opera Pia di Barolo e i terreni ceduti a diversi fattori; il paesaggio divenne così frammentato, caratteristica ancora visibile nelle Langhe.

Verso la fine del secolo ci fu un farmacista di nome Giuseppe Cappellano che aggiungendo delle spezie al Barolo creò il Barolo Chinato, un vino aromatizzato utilizzato come rimedio per il raffreddore e la cattiva digestione.

Barolo Chinato
Barolo Chinato Cocchi (Fonte: www.cocchi.it)

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Il Barolo nel 1873 vinse ben 7 medaglie d’oro al concorso enologico di Vienna, un vino nobile destinato all’invecchiamento.

Etichetta Barolo
Etichetta del Barolo (Fonte: www.pinterest.it)

Con l’arrivo in Italia della fillossera furono distrutte quasi tutte le viti; si salvarono solo quelle nei conventi, nelle grange e nelle abbazie.

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Col dopoguerra e con la ripresa economica il Barolo torna al suo splendore ottenendo nel 1966 la DOC e nel 1980 la DOCG[7].

Un Barolo DOCG, per potersi chiamarsi tale, deve invecchiare almeno 38 mesi, a decorrere dal 1 novembre dell’anno di produzione delle uve, di cui 18 in botti di legno.

Il termine ‘Riserva’ per un Barolo invece compare in etichetta dopo ben 5 anni di affinamento.

Come accade per i più importanti vini francesi, il Barolo DOCG ha i suoi crus rappresentati dai vigneti di Bussia (Monforte d’Alba), Villero (Castiglione Falletto) o Cannubi (Barolo).

Un vino austero, elegante; il nebbiolo è un’uva che possiede grande carattere e spessore e che per questo necessita di una certa abilità nella vinificazione.

Il Barolo DOCG grazie alla sua carica zuccherina, acida e polifenolica non teme il tempo, anzi.

Il suo color rosso granata col tempo tende a schiarirsi e i suoi intensi profumi passano dai frutti rossi e confetturati a quelli balsamici e boisé del legno, della vaniglia, del tabacco e delle spezie, con quel suo gusto caldo e avvolgente.

Vinificazione in rosso vino rosso

Caratteristiche inconfondibili queste del Barolo DOCG che lo rendono un nettare potente e di classe.

Accompagna splendidamente piatti a base di carne, selvaggina, capretti, agnelli, brasati ma anche formaggi molto stagionati e perché no, un cioccolato fondente di alta qualità.

 

Bibliografia e sitografia

Guida ai vitigni d’Italia. Storia e caratteristiche di 600 varietà autoctone, Slow Food Editore, 2011, pagg. 311-313

www.stradadelbarolo.it

 

[1] Libro 3, cap. 47
[2] Il termine langhe secondo alcuni studiosi deriverebbe da langues che non sono altro che delle lingue di terra che si estendono in un vivace gioco di profili, modulati dal mutare delle stagioni.
[3] Il documento è uno degli oltre 3.000 rotoli che, con registri e mazzi, sono noti come ‘Conti delle castellanie’, cioè i conti resi da un castellano, rappresentante locale del potere centrale, al suo signore. Si compone di voci di entrate, in natura o in denaro, derivanti da tasse, pedaggi, multe riscosse, e di voci di spesa. Sono attestati fino alla seconda metà del Cinquecento. Il più antico è un rotolo della castellania di Rivoli (1264-1266). Nell’anno 1266, fra le entrate sono registrati 300 staia (sexstarii) di introito (de exitu) derivante dalle vigne de Nibiol: “hoc anno de CCC sextariis receptis de exitu vinearum de Nibiol”. È la più antica attestazione finora reperita di vino Nebbiolo. Il sestario italico è un’antica unità di misura pari a circa mezzo litro.
[4] I Falletti erano una famiglia di banchieri che acquisirono importanti proprietà terriere nel Comune di Alba sin dal 1250.
[5] Juliette era pronipote del famoso ministro delle finanze di Luigi XIV di Francia e sposò il Marchese Falletti con il beneplacito di Napoleone. Fu animatrice di uno dei più importanti circoli intellettuali di Torino nonché mecenate e protettrice di Silvio Pellico.
[6] ‘Il vino dei re, il re dei vini’.
[7] Molto importante è stato anche il 1934, anno della fondazione del Consorzio di Difesa dei Vini Tipici di Pregio Barolo e Barbaresco, che aveva il compito di definire il contesto produttivo (la zona di origine, le uve e le caratteristiche del vino), vigilare contro frodi, adulterazioni e sleale concorrenza, promuovere la conoscenza dei vini, oltre a difenderne nome e qualità nelle sedi più opportune.
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2 commenti

  1. Gran bell’articolo dedicato alle nostre zone. Anche noi produciamo un nebbiolo molto interessante. Sono un ragazzo giovane che ha seguito le orme di 4 precedenti generazioni. Mi piace quello che faccio e quando leggo articoli come questo, ne vengo letteralmente travolto. Complimenti veri! Vi seguirò più spesso.

    1. Grazie mille, Daniele!
      Sono molto contenta che l’articolo ti piaccia 🙂

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Giulia Cosenza

Calabrese DOC, sommelier con master in Cultura dell'alimentazione e delle tradizioni enogastronomiche

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