La storia e la diffusione di un’antica uva del Sud Italia: l’aglianico e le etichette dei vini lucani di Cantine del Notaio
L’aglianico è da molti considerato il vitigno più importante del Sud Italia. Il perché è facilmente spiegabile dalle espressioni territoriali che quest’uva così vigorosa regala: dalla Campania alla Basilicata numerosi sono i vini che lo rappresentano, austeri, generosi, di spiccata personalità e soprattutto, molto longevi.
Cantine del Notaio è una realtà ormai consacrata nel panorama vitivinicolo lucano e ad oggi rappresenta una delle aziende che negli anni ha saputo valorizzare ed elevare l’aglianico grazie alla passione e all’amore per le proprie terre che da generazioni guidano i suoi proprietari.
Gerardo Giuratrabocchetti e la sua famiglia curano i loro 26 ettari di vigneti, alcuni centenari; l’aglianico qui è coltivato sulle pendici di un antico vulcano spento, il Vùlture, che ne dà la denominazione: i terreni ricchi di minerali e di strati tufacei che fanno da riserva idrica (e che i contadini chiamano “il tufo che allatta”) danno luogo alle caratteristiche inconfondibili di quest’uva millenaria e, per alcuni versi, misteriosa.
Secondo gli studi sarebbe un vitigno importato dai greci colonizzatori al loro arrivo sulle coste italiane (hellenico); l’unica certezza che abbiamo sull’aglianico è che si tratta di una varietà molto antica, come testimonia anche il fatto che la sua famiglia nel corso dei secoli si è suddivisa in un gran numero di biotipi e sottovarietà. Tutto ciò ha creato non poche confusioni, con il proliferare per ogni biotipo di aglianico di sinonimi corretti ed errati.
Probabilmente sotto il grande cappello delle storiche “viti aminee” erano inglobate numerose varietà diverse. Già Catone e Strabone ne comprendono almeno tre distinte, poi Plinio e Columella le suddividono ulteriormente in cinque o sei tipi (Aminea, A. maior, A. minor, A. gemina maior, A. lanata).
La prima domanda dunque, cui non si può dare una risposta certa, è se l’aglianico odierno sia uno dei vitigni che hanno reso famosi nell’antichità i vini della Campania felix, in particolare quelli dell’Ager falernus (Falernum, Gauranum, Faustianum e Caecubum), e quindi se in qualche modo sia imparentato con le Aminee[1].
Sulla base di questa continuità storica e dell’analisi degli scritti di Columella, che descrive vitigni a maturazione tardiva, oltre che per motivi linguistici[2], il Carlucci afferma all’inizio del Novecento che l’aglianico è l’uva dei mitici vini dell’antichità. Ma non si può comunque dire che i numerosi ampelografi del XIX secolo siano riusciti a fugare i dubbi cui un vitigno così variabile negli aspetti fenologici e così ricco di sinonimi[3] poteva dare origine[4].
Più recentemente Murolo (1985) ha avanzato l’ipotesi dell’assonanza esistente tra Gauranico (antico vino dell’Ager falernus) e Glianico (denominazione dialettale di aglianico), mentre Guadagno (1997) respinge l’origine greca, argomentando che la sua elevata acidità è tipica delle uve selvatiche.
E’ considerata poco attendibile l’ipotesi che vuole il termine aglianico proveniente dal latino juliatico (ovvero “uva che matura a luglio”), perché il vitigno ha una maturazione tardiva e non precoce. I risultati delle lunghe indagini condotte sui biotipi hanno dimostrato che quello campano e quello del Vùlture sono un unico vitigno, con differenze di vario ordine ascrivibili a una normale variabilità intravarietale, mentre l’aglianicone si è rivelato un vitigno estraneo ai due precedenti[5].
L’aglianico ha un grappolo cilindrico o conico piuttosto piccolo (da 150 a 250 grammi) e compatto con eventuale presenza di una, o più raramente, due ali. L’acino è piccolo, di forma sferica, con buccia spessa, a volte persino coriacea, pruinosa e di colore blu-nero. Matura tra la metà di ottobre e la prima decade di novembre.
Tra le varie etichette che nascono dalle bellissime terre del Vùlture, Cantine del Notaio presenta quattro rossi di aglianico: Il Sigillo, La Firma, Il Repertorio e, in edizione limitata, Il Lascito. Il Sigillo è una moderna interpretazione del vitigno in purezza che viene prodotta da uve surmature o appassite; una sorta di “Amarone del Sud” che affina in grotte naturali di tufo vulcanico, in carati o tonneaux di rovere francese, per un periodo di almeno 24 mesi e altri 24 in bottiglia.
Ne La Firma DOCG l’aglianico è raccolto a piena maturazione macera circa 20 giorni ed estrae al massimo le sue potenzialità; riposa anch’esso in grotte naturali di tufo vulcanico, in carati o tonneaux di rovere francese, per un periodo di almeno 12 mesi e altri 12 in bottiglia.
Il Repertorio ha invece una lavorazione più “tradizionale” con una macerazione di circa 10 giorni e una vinificazione a temperatura controllata in acciaio inox, con un passaggio in legno di almeno 12 mesi, mentre Il Lascito è un blend dei migliori vini da aglianico 100% degli ultimi 20 anni a partire dal 1998, anno di fondazione; dopo un affinamento in legno (barriques, tonneaux e botti), a giusta maturazione, è passato in acciaio.
Altro rosso di Cantine del Notaio è L’Atto, un Basilicata IGT sempre da aglianico; sono vini importanti, intensi e corposi, studiati per coniugare tradizione ed innovazione, per esaltare in maniera eccellente tutte le caratteristiche di questo straordinario vitigno e raccontare così lo splendido territorio della Basilicata e la sua lontana cultura enologica.
Il Sigillo, La Firma, Il Repertorio e L’Atto fanno parte della selezione Best Wine Stars 2018.
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Bibliografia
Guida ai vitigni d’Italia. Storia e caratteristiche di 600 varietà autoctone, Slow Food Editore, pagg. 41-43