Cultura

“Vivere da sibarita”: il lusso, i banchetti e la tryphè di Sibari

Dei fasti dell’antica città di Sibari ci sono pervenute moltissime storie, la maggior parte delle quali riguardano la sua ricchezza vissuta con lusso e ostentazione: ecco qui un excursus di quello che era chiamato il “vivere da sibarita”, fatto non solo di feste, sontuosi banchetti e cucina raffinata, ma anche di innovazioni gastronomiche e sociali

“Sibari trae vantaggio da tutto. Concede esenzioni d’imposte, punti franchi, agevolazioni doganali. Si converte in una fiera permanente fra l’oriente e l’occidente mediterraneo.

Esporta vino, pelli, olio, cera, legna, miele, pece del suo territorio. Ottime strade percorrono in ogni senso il paese. Condutture trasportano dalla campagna in città e fino al punto d’imbarco, l’olio e il vino.

Provetti artigiani, protetti da leggi speciali, alimentano una fiorente industria. In un secolo di vita eroica il “molle sibarita” ha saputo creare qualcosa di superiore ad ogni altra della sua epoca.

Quattro nazioni e venticinque città indigene riconoscono la sua autorità. Ospita trecentomila abitanti liberi, oltre gli schiavi, mentre la cinta delle sue mura si estende per nove chilometri.

Nelle vie e nelle piazze della città, divenuta la maggiore dell’occidente, volteggiano 5000 cavalieri in corazza geminata e manto di porpora…

La stessa Atene, al massimo del suo splendore, non riuscirà che ad allinearne un quarto di questa cifra”.

(Sibari – Kazimiera Alberti, in “L’anima della Calabria”, 1950)

La fama di Sibari, la più antica delle colonie della costa ionica e tra le più ricche e potenti della Magna Grecia, ha attraversato i secoli e ancora oggi resta, per molti aspetti, misteriosa e affascinante.

Ci è stata sempre narrata come la “città degli eccessi”, quella dedita ai piaceri della vita, della compagnia e della buona tavola: la tryphè sibarita ne ha caratterizzato la grandezza e, secondo gli scrittori antichi, la rovina.

Ed anche se sono diventati famosi per i loro costumi smodati, i sibariti hanno però dimostrato una certa apertura mentale ed una propensione verso le innovazioni.

Un po’ di storia

Fondata attorno al 720 a.C. da Achei del Peloponneso con la partecipazione di Trezeni dell’Argolide, nacque nella fertile piana alla confluenza dei due fiumi Chratis e Sybaris, che i coloni chiamarono così in memoria di un fiume e di una fonte della terra nativa.

Ricca e potente fondò a sua volta città come quelle di Posidonia (Paestum) in Campania, Laos (Marcellina) e Skidros (probabilmente Belvedere Marittimo) sulla costa tirrenica della Calabria.

Dopo due secoli di storia, nel 510 a.C., l’opulenta e magnifica Sibari fu distrutta completamente dai Crotoniati, che guidati dall’atleta olimpionico Milone, deviarono persino le acque del Crati per sommergerne le macerie.

I sopravvissuti sibariti si rifugiarono sul versante tirrenico e chiesero alla Grecia di inviare nuovi coloni per ricostruire la città;

Pericle allora organizzò una spedizione a cui parteciparono anche personaggi illustri e la nuova colonia, sorta sulle antiche rovine della prima, venne chiamata Thurii, che in epoca romana fu inglobata parzialmente nella nuova colonia di Copiae.

Ma nulla riporterà più in vita i fasti della mitica Sybaris.

Gli abitanti di Sibari erano conosciuti in tutto il mondo antico non solo per l’evidente ricchezza, ma anche per lo sfarzo e l’ostentazione del loro lusso e soprattutto per la continua ricerca del piacere, tanto che il verbo sybarizein (συβαρίζειν, cioè “vivere da sibarita”) attestato già in Aristofane[1], significava proprio vita dedita a feste, banchetti e giochi.

La città diventò vero e proprio simbolo della vita lussuriosa e, stando alle fonti, contagiò anche Crotone, addirittura dopo la sua distruzione, quasi come una vendetta[2].

I motivi che portarono Sibari alla sua fine, furono vari, ma sicuramente la violazione dei limiti e della norma (la famosa hybris dei greci) hanno contribuito molto al tracollo.

Anche nel racconto di Strabone[3], il lusso, la mollezza, la cosiddetta tryphè, furono causa della rovina della città di Sibari.

Un popolo di “rammolliti” (come erano detti anche gli Ioni e gli Etruschi) che faceva sfoggio esagerato, per l’epoca, dei propri beni: si racconta che confezionassero abiti con materie prime di altissima qualità, come lana e porpora che acquistavano dalla lontana Mileto;

avevano cinture tempestate di gemme, i figli raccoglievano i capelli in retine d’oro, le corazze dei cavalieri erano riccamente decorate;

le donne sibarite, che potevano prendere parte ad un banchetto o una festa ufficiale solo se invitate un anno prima, avevano tutto il tempo di preparare degni vestiti e accessori, mentre le fanciulle vestivano stoffe talmente sottili e leggere che lasciavano traslucere la pelle[4].

Inoltre i sibariti odiavano svegliarsi presto al mattino e fare lavori pesanti, e perciò ingaggiavano un certo numero di operai per lavorare i loro campi.

Ma il modo di “vivere alla sibarita” si vedeva meglio a tavola, dove non si facevano mancare nulla e riguardo la quale è possibile riscontrare elementi rivoluzionari per l’epoca.

L’edonismo sibarita

La grande fortuna di Sibari era dovuta principalmente alla terra sulla quale sorgeva:

Quei campi davano, come altrove s’è detto, il cento per uno; e da quelle vigne scorrevano per vie sotterranee fino alle case della città rivi di squisitissimi vini.

La vicina Siritide era popolata di tali stormi di pernici, che secondo l’esagerazione di un antico, collo strepito del volo facevano fuggire spaventati i naviganti stranieri.

Nei prati di Sibari crescevano le fragole tra i fiori e l’erbe odorose. Quivi le api non cessavano in tutto l’anno di lavorare un miele dolcissimo.

E quasi quel suolo secondar volesse in tutte le stagioni la golosità de’ suoi abitanti, alimentava una vite detta Tarrupia, che portava grappoli anche nel cuor dell’inverno.

Oltrechè Sibari, in mezzo a due fiumi pescosi, e vicino ad un mare popolato d’ogni generazione di pesci, poteva avere senza disagio quanto le acque danno di più delizioso al palato[5].

L’economia di Sibari si basava dunque sull’agricoltura: gli uliveti donavano olii pregiatissimi e per quanto riguarda i vini, poi, ne avevano di squisiti.

Plinio[6] li anteponeva a tutti quelli del mare Ausonio e Strabone li chiamava “nobilissimi fra tutti i vini[7], i quali raggiungevano nei commerci l’Africa e la Spagna.

Le leggende narrano che il vino fosse trasportato attraverso condutture sotterranee e la sua produzione era così importante da apparire persino sulle monete della città con il simbolo della foglia di vite.

Nomos in argento proveniente da Thurii: al diritto testa elmata di Atena e al rovescio toro cozzante con foglia di vite e legenda ΘΟΥΡΙΩΝ, IV secolo a.C. (Fonte: NAC 78, 26 may 2014, n.187)

Del cibo, sempre ottimo e abbondante, i sibariti avevano una speciale predilezione per le anguille, pescate nelle acque del Crati, accompagnate da bietole;

si narra che i cuochi di Sibari inventassero condimenti speciali che risultavano sempre una novità per i palati: questi chef venivano premiati con corone d’oro e celebrati come si soleva fare con personaggi illustri o eroi.

Addirittura, di ogni nuova ricetta proposta, nessuno, a parte l’inventore, poteva farne uso almeno per un anno, una sorta di “brevetto culinario” (come narra Ateneo di Naucrati che riporta Filarco).

Era una città sì mondana, ma mentalmente aperta ed innovatrice: mentre a Sibari i cuochi ottenevano questi riconoscimenti, a Roma non esistevano nemmeno i fornai.

Elio Lampridio scrive nella Vita di Eliogabalo[8] che i sibariti furono sconfitti nello stesso anno in cui avevano inventato un pasto fatto di olio e garon (γάρον) che per questa ragione veniva chiamato “sibaritico”[9]:

lo riducevano a guazzetto stemperandolo con l’aceto o con il vino o, appunto, con l’olio che poi diventò una vera e propria ghiottoneria della gastronomia romana, il famoso garum [10].

LEGGI ANCHE IL POST SUL GARUM

A Sibari il banchetto durava ad oltranza: era sinonimo di fantastiche pietanze, ottimo vino (si narra anche che, per non cadere preda dell’ebrezza, i sibariti mangiassero del cavolo crudo[11]) e allegria:

oltre alla bellezza delle loro raffinate tavole, opera di apparecchiatori appositamente commissionati e cuochi all’avanguardia, ci si allietava con danze, suoni e canti;

ad intrattenere i convitati non vi erano belle danzatrici ma bensì cavalli, che al ritmo di musica si drizzavano sulle zampe posteriori.

Non si parlava d’altro che dei piaceri della vita, poiché in quei momenti ludici e rilassanti nulla doveva tediare l’atmosfera, specie con discorsi che avrebbero potuto turbare gli animi dei presenti.

Vaso apulo del IV sec. a.C. conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna con scena di banchetto e suonatrice di flauto (Fonte: http://imparareconlastoria.blogspot.it/2014/07/)

 

Bibliografia

Romualdo Cannonero, Dell’antica città di Sibari e dei costumi de Sibariti, Fratelli Bocca, 1876

Carmine Ampolo, La città dell’eccesso: per la storia di Sibari fino al 510 a.C. in Sibari e la Sibaritide, Atti del trentaduesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto-Sibari, 7-12 ottobre 1992, pagg. 213-254

Giuseppe Nenci, Tryphé e colonizzazione in Modes de contacts et processus de transformation dans les sociétés anciennes. Actes du colloque de Cortone (24-30 mai 1981), Rome: École Française de Rome, 1983. pp. 1019-1031. (Publications de l’École française de Rome, 67)

 

[1] Aristofane parlava anche di “banchetti sibaritici” (nei Daitaleis, fr. 21 Cassio = 225 Kassel Austin)
[2] Κρωτωνιάται, ώς φησι Τίμαιος, μετά το έξελεΐν Συβαρίτας, έξώκειλαν εις τρυφήν (Athen., XII, 522 A)
[3] Strabone VI, 1, 13 263 C
[4] Gli antichi le chiamavano vitree per quanto erano diafane e trasparenti.
[5] Romualdo Cannonero, Dell’antica città di Sibari e dei costumi de’ Sibariti, Fratelli Bocca, 1876, pagg. 25-26
[6] Plinio, XIV, 8; XV, 6
[7] Strabone, VI, II.
[8] Hist. Aug, 17, 30, 6
[9] Erasmo da Rotterdam, Adagi, Bompiani 2013, pag. 1067
[10] Il garo si fa, dice Plinio (XXX, 44), degli interiori di pesci e dell’altre cose che s’avrebbono a gettar via. Facevasi di un piccolo pesce, da’ Greci chiamato garo, macerato nel sale e stemperato e spremuto. Né tempi susseguenti si preparava col pesce scombro. A’ dì nostri si fa colle uova dello storione o di altro pesce grosso (Romualdo Cannonero, Dell’antica città di Sibari e dei costumi de Sibariti, pag. 32)
[11]Se vuoi ber molto in un convito e cenar di buona voglia, mangia del cavolo crudo condito coll’aceto, e parimenti mangiane qualche foglia dopo la cena. (Catone, De Agric., c. 157)
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11 commenti

  1. La bella vita esisteva già da quelle parti.Non si facevano mancare nulla.Non conoscevo il trucco del cavolo crudo.Forse in quell’epoca avrei fatto fatica visto che non mi piacciono le anguille…E poi chi l’avrebbe mai detto che masterchef fosse invenzione di Sibari….Tuttavia preferire dei cavalli alle danzatrici non si può sentire…

    1. le danzatrici credo le avessero anche 😀 i cavalli erano spettacoli che di solito non si vedevano…

  2. Mi pemetto di dare qualche notizia sull’ipotesi di Skidros da ricercare su lterritorio di Belvedere Marittimo: la descrizione della zona che fa Strabone circa la battaglia tra Lucani e quello che era rimasto dell’esercito sibarita in fuga verso il tirreno si puo’ identificare con Piazza dei Greci sul territorio di Buonvicino. ( da Francesco Casella: “”Storia Arcaica di Buonvicino”.

    1. Grazie Giuseppe! Gli approfondimenti sono sempre graditissimi 🙂

  3. Nicola Antonio Uccella

    La storia di Sybaris, di Mileto e degli Etruschi va rivisitata da capo a fondo, a cominciare dai termini e dai significati.
    Dopo il MedioEvo elleno, la sovrappolazione dell’Ellade aveva comportato una fase di emigrazione verso nuove terre sulla base di precedenti informazioni ricevute e sistematizzate nei miti di Ercole, Giasone e di Odisseo. Gli elleni arano costretti a migrare e non riuscivano a stabilire Ampori nella Apulia degli Japigi per ovvi motivi. Lo avrebbero fatto solo in Italia, come allora era denominata la Calabria, cosi poi divenuta nel nostro MedioEvo. E l’Italia era allora la terra degli Oinotri, transitati da nomadi cacciatori-raccoglitori, tramite l’opera fondatrice del loro leader, Italo, citato da Aristotele anche come l’istitutore del syssition, il banchetto della convivialitas mediterraneo-italica.
    Sulle coste italocalabre, giungevano piccole imbarcazioni di poche decine di soli maschi, come descritto dal mito di Giasone. In precedenza, c’erano stati contatti, ma, come narrava Erodoto, avvenivano col baratto a distanza. L’imbarcazione approdava e lasciava la mercanzia di attrazione, ceramica e altro, come i marocchini di oggi. I locali fornivano invece materiale pegiato e vario, compreso alimenti scarseggianti nell’Ellade micenea. Quando lo scambio era soddisfacente, le imarcazioni prendevano il largo in regime di piccolo cabotaggio. Gli antichi marinai avevano trasferito le loro informazioni ai sacerdoti del tempio di Apollo a Delfi, dove i nuovi migranti avrebbero poi ricevuto le istruzioni per programmare il viaggio di abbandono della natia terra, questa volta senza ritorno, perchè li cacciavano di casa! Arrivati alla meta, come nel mito di Enea ammogliato con Lavinia, Lāuīnĭa, una leggendaria principessa italica del 1100 aC ca, figlia del re Latino e della regina Amata. Secondo la tradizione epica latina, Lavinia era stata la terza sposa dell’Enea, troiano dal vicino Oriente. E gli aveva dato un figlio Silvio, capostipite dei re latini, una serie di leggendari sovrani del Lazio e Alba Longa e, nella mitologia romana, collegavano Enea e la fondazione di Roma da parte di Romolo e Remo nel 753 aC. Come Enea con Lavinia, i migranti elleni erano senza femmine e cercavano le belle locali per l’accoppiamento e la riproduzione. E la loro prole riceveva la formazione trasmessa per via matrilinea, come geneticamente anche le capcità intellettive. Così, mentre nell’Ellade morivano di fame e impiagavano procedure culinarie banali, come descritto nell’Iliade, nell’Italia-Calabria la civiltà alimentare era già esplosa, perchè erade dell’etrusca e questa del vicino Oriente, come Mileto. Quando Sybaris era città confederatacon alre 5 etnie locali, Atene era un piccolo borgo di non ancora oligarchi. Pitagora veniva dal vicino Oriente, da Samo vicino a Mileto, non da Atene. E scacciato dalla pressione demografica della nascente Persia imperiale, dopo aver peregrinato per le aree della grande civiltà dell’epoca, antico Egitto e Mesopotamia, non andava astabilire la sua Accademia in Ellade, ma in Italia-Calabria per fomentare l’odio verso l’evoluzione culturale dei sibariti, definiti lussurios isolo per invidia.
    Smindiride, il sibarita, come narrava sempre Erodoto, invitato da Clistene a Sicione in Ellade per proporgli in moglie Agariste, onde non patire la fame, portava anche cuochi e uccellatori, e quando dopo il pasto gli veniva offerta la compagnia di un fanciullo, in ossequio alla pedofila cultura di quella regione, andava su tutte le furie, e rifiutava l’offerta, perchè da sibarita eterosessuale era amante delle belle donne.
    Così possiamo sovvertire l’approccio blasfemo delle novelle sibarite!

    1. Grazie professore!
      E’ vero che bisogna difendere sempre la nostra cultura!

  4. Mi permetto una errata corrige su quanto inoltrato dal dotto prof. Uccella: ” … e non riuscivano a stabilire Ampori nella Apulia degli Japigi ” va sostituito con ” … e non riuscivano a stabilire Empori nella Apulia dei Messapi”

  5. Nicola Antonio Uccella

    Il solito saccente di Tonino P. Volpe…, lasciatosi anonimo! Ha letto io mio commento e ne rimasto esterefatto in quanto la sua cultura extra GIUDA Lab è confinata a Wttgestein e Recalcati. Gli ho fatto notare i miei errori di getto!

  6. Complimenti! Solo un imprecisione il Nomos in argento indicato nella foto, raffigura un toro cozzante non retrospicente

    1. Ciao Francesco!
      Grazie mille 🙂
      Hai ragione, è cozzante, è stata una svista ! Grazie per la segnalazione, provvedo alla correzione!

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Giulia Cosenza

Calabrese DOC, sommelier con master in Cultura dell'alimentazione e delle tradizioni enogastronomiche

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