La storia della vite e del vino attraverso i tempi e i luoghi, nell’affascinante viaggio millenario della cultura enologica
Da più di 8000 anni vite e vino sono parte della storia degli uomini; la loro origine si perde nella notte dei tempi, ma la loro presenza ha plasmato e connotato tradizioni, linguaggi, valori e simboli, segnando in maniera indelebile quel “calderone” che chiamano cultura e dimostrando come le pratiche vitivinicole non hanno mai avuto un significato esclusivamente tecnico, così come il vino non ha mai avuto una valenza esclusivamente alimentare. Massimo Montanari sostiene anzi che “è frutto della feconda collaborazione fra natura e cultura, che rende l’uomo co-autore e co-produttore della sua bevanda. Il vino quindi non appartiene solo alla natura o solo alla cultura, ma esiste e vive in una relazione che coinvolge la terra, l’uomo e la storia”.
Nel corso dei millenni il vino si è dunque caricato di forti caratteristiche culturali, in virtù delle quali è stato diffuso dapprima in tutto il bacino del Mediterraneo, quando i Greci, affinate le tecniche di produzione vitivinicola, lo posero al centro di un complesso circuito di scambi commerciali, rendendo di fatto la vite una “pianta di civiltà”, e successivamente in Europa, quando i Romani ne espansero commercio e coltivazione fino ai confini dell’Impero.
Ecco un breve excursus.
Cenni di etimologia
La parola vino è antichissima. Gli etimologi discutono se farla derivare da “venas”, termine formato dalla radice del sanscrito “ven” (amare) da cui Venus (Venere), oppure dall’antico ebraico “iin” che attraverso il greco “οίνος” (oinos) sarebbe arrivata ai latini. Altri invece sostengono che dalla radice sanscrita “vi” (attorcigliarsi) verrebbe fuori la parola vino, cioè il frutto della pianta che si attorciglia. Secondo Cicerone, invece, deriverebbe dal latino “vis”, forza e da “vir” uomo.
Ma per i linguisti la tesi più accreditata è l’origine greca (proseguita poi nel vinum latino), ma non dal greco ionico-attico, bensì da quello eolico delle isole di Lesbo e di Samo, dalle quali partì la prima effettiva produzione vitivinicola di tutta la Grecia. Gli abitanti di Lesbo e Samo conobbero il vino attraverso il Vicino Oriente e l’Egitto. A loro volta gli Egizi e i semitici occidentali vennero a conoscenza della bevanda attraverso le regioni caucasiche tra il Mar Caspio e il Mar Nero, grosso modo l’attuale Georgia, e dove, ancora oggi, il vino è chiamato gwino, che è da considerarsi quindi l’etimo primigenio.
Il lungo viaggio da est verso ovest
Geologicamente la vite come pianta vegetale fa la sua comparsa sulla Terra circa 60 milioni di anni fa. Sopravvissute anche oltre l’ultima glaciazione, le specie del genere vitis sono all’incirca 60, e una su tutte è la famosa vitis vinifera. Le fonti a nostra disposizione non sono purtroppo in grado di determinare con esattezza il momento e il luogo in cui il vino sia stato adottato da parte dell’uomo, ma tracce archeologiche e archeobotaniche ci riportano all’epoca neolitica, nella regione euroasiatica corrispondente agli attuali stati della Georgia e dell’Armenia, dove è stata rinvenuta la più antica cantina vinicola finora conosciuta (foto).
Lo ha rivelato una ricerca finanziata dalla University of California di Los Angeles (UCLA) e dalla National Geographic Society, pubblicata sul Journal of Archaeological Science: vicino al villaggio di Areni in Armenia, dove la catena del Caucaso volge verso le montagne di Zagros, nella stessa grotta dove è stata rinvenuta una scarpa in pelle di 5.500 anni fa, conservatasi perfettamente, gli archeologi hanno rinvenuto una pressa per l’uva, recipienti per la fermentazione e la conservazione del vino, coppe, nonché resti di graspi, semi e bucce. Nel settembre 2010 gli archeologi hanno completato lo scavo di una vasca (un tino), profonda una sessantina di centimetri, sepolta accanto a un recipiente di argilla, lungo circa un metro, dai bordi alti: manufatti che indicherebbero che gli antichi vinificatori dell’Età del Rame avrebbero schiacciato l’uva in modo tradizionale, ossia con i piedi.
Dal recipiente d’argilla il succo d’uva sarebbe poi defluito nel tino, e lì sarebbe stato lasciato a fermentare. Il vino sarebbe poi stato custodito in giare e l’ambiente fresco e asciutto della grotta, perfetto per una cantina, avrebbe fatto il resto. La produzione vinicola si svolgeva in prossimità di un sito funerario, ed era forse dedicata ai defunti. Nonostante questi rinvenimenti ci diano delle notizie riguardo la nascita della viticoltura, non ci svelano però il “segreto” su come si sia giunti all’ottenimento del vino, che probabilmente è frutto della casuale trasformazione alcolica del succo degli acini lasciati all’interno di un contenitore. Di certo, il vino, come bevanda, non si può considerare “naturale” ma un’invenzione, non esisterebbe senza l’ingegno e “l’artificio” dell’uomo, ovvero la capacità di fare con arte, di creare, in qualche modo, ciò che la natura rende possibile ma che con le sue sole forze non saprebbe realizzare.
Per avere delle certezze circa l’utilizzo del vino come alimento bisogna attendere il IV-III millennio a.C. e considerare tutta l’area del Vicino Oriente compresa tra i territori della Turchia, Giordania, Iraq e Iran. In queste zone le società agricole praticavano molto bene l’arte della vinificazione (come è confermato da una serie di testimonianze archeologiche tra cui tini, torchi e anfore vinarie) e documentarie (ad esempio l’epopea dell’eroe sumerico Gilgamesh).
Da esse si può comprendere come il vino facesse parte integrante delle abitudini alimentari delle élites aristocratiche e sacerdotali (il popolo beveva fondamentalmente birra d’orzo o di altri cereali), e fosse utilizzato nelle pratiche rituali legate alla sfera magico-religiosa. Nel bacino del Mediterraneo, invece, prima ancora della Grecia (riconosciuta come la vera patria culturale del “nettare degli dei”) è stato l’Egitto a fornirci indicazioni storicamente comprovate di come, nel III millennio a.C., il vino venisse già prodotto seguendo schemi che potremmo definire addirittura “moderni”: nella pittura della tomba tebana di Nakht della XVIII dinastia, ritrovata a Sheikh Abd el-Qurna, sono rappresentati due contadini che colgono grappoli d’uva, da cui si deduce che in Egitto, nel II millennio a.C. era diffuso il sistema di coltivazione “a pergola”.
Altri quattro lavoranti procedono alla pigiatura delle uve in un grande tino ed un loro compagno, chino sotto le cannelle, raccoglie nei recipienti il mosto appena spremuto. In alto si nota una ordinata fila di anfore nelle quali, una volta completata la fermentazione, veniva risposto il vino. Chi faceva vino apponeva anche un sigillo con l’anno della vendemmia; prima prova di una rudimentale pratica di invecchiamento. Infatti anche nella tomba di Tutankhamon sono stati ritrovati vasi di uso comune, una dozzina di recipienti per bere e poggiare cibo (piatti, tazze, coppe ecc.) e una cinquantina di vasi (giare) per contenere i prodotti destinati a riempire i recipienti più piccoli. Di questa cinquantina di anfore, una trentina almeno conteneva vino.
Tutti questi recipienti sono di fabbricazione locale. Ventisei giare per il vino portano iscrizioni in ieratico, fatte con l’inchiostro, e precisano la natura della bevanda, il vigneto da dove proviene e il nome del negoziante. Queste iscrizioni menzionano anche l’annata di produzione ed è stato così possibile stabilire che nessuno dei vini depositati nella tomba era posteriore al nono anno di regno del faraone. Come per la birra, il vino poteva essere arricchito con alcuni ingredienti per variarne sapore e gradazione; sappiamo inoltre da documenti scritti che era particolarmente apprezzato il vino prodotto nel delta del Nilo e in alcune oasi.
Dunque, si può ben comprendere come gli antichi abitanti della Valle del Nilo apprezzassero il frutto della vite e conoscessero le tecniche per conservarlo doverosamente. Anche a Creta il vino è attestato nelle tavolette in geroglifico cretese, in lineare A e lineare B che risalgono a un periodo compreso tra la fine del XIX secolo a.C. e quella del XIII secolo a.C. Sembra chiaro che il vino recitasse un ruolo fondamentale nelle grandi feste organizzate in onore delle divinità o per celebrare un evento particolare della vita del palazzo, come ad esempio, l’incoronazione di un nuovo sovrano. In occasione di queste grandi feste, come mostrano le tavolette in scrittura lineare B rinvenute a Pilo, migliaia di litri di vino potevano essere consumate dai partecipanti alle cerimonie. Attraverso Greci e Fenici il vino entrò nella civiltà occidentale.
L’arte della coltivazione della vite migrò verso l’Italia probabilmente verso il secondo millennio a.C., dapprima in Sicilia dove i Fenici portarono un clone di vitis vinifera sativa, poi in seguito nelle regioni centro-settentrionali ad opera degli Etruschi. Nel mondo greco il vino era ritenuto un dono degli dei; anche i poemi omerici sono ricchi di citazioni a prova della grande importanza che rivestiva nella cultura ellenica. La qualità dipendeva dall’esposizione del vigneto, dalle caratteristiche delle piante e dai metodi di coltivazione: sappiamo ad esempio che le vigne basse davano vini mediocri e che, invece, i grandi vini italici erano generalmente ricavati da viti in arbusto.
Era inoltre radicato anche l’allevamento della vite con ceppo basso e senza sostegno (detto ad “alberello basso”, tecnica che ancora oggi è utilizzata nelle zone dell’Italia meridionale, soprattutto a Pantelleria, dove lo zibibbo è diventato patrimonio dell’umanità nel 2014), o con sostegno a paletto. La vite etrusca, invece, a differenza di quella greca, per crescere più forte, veniva “maritata”, appoggiata al pioppo, circondata da siepi per essere protetta dagli animali alla ricerca del pascolo. Per quanto riguarda la vinificazione è testimoniato l’uso di una tecnica molto simile a quella utilizzata fino quasi ai nostri giorni: essa prevedeva, in breve, la raccolta e la pigiatura dei grappoli in larghi bacini, la torchiatura dei raspi e la fermentazione del mosto in recipienti lasciati aperti fino al completo esaurimento del processo.
A differenza degli altri lavori agricoli, la vendemmia era un’attività festosa, che non apparteneva propriamente alla sfera del lavoro quotidiano, ma trasformava la condizione umana e la poneva in contatto con il divino. E’ per questo che, almeno nel mondo greco, la maggior parte delle raffigurazioni relative alla produzione del vino, ed in particolare alla vendemmia, hanno come protagonisti Dioniso ed il suo seguito di satiri e menadi, che sono spesso rappresentati mentre riempiono i canestri di grappoli d’uva o nelle altre fasi del suo trattamento.
Gli Etruschi col vino onoravano i morti, insieme alla danza ed al suono dei flauti doppi. Soprattutto nel ceto aristocratico, erano diffuse pratiche religiose in onore di Fufluns (Bacco), il loro dio del vino. Questi riti segreti e strettamente riservati agli iniziati, grazie all’ebbrezza provocata dalla bevanda, avevano il fine di raggiungere la “possessione” del dio nel mondo terreno, garantendo così in anticipo una sorte felice nell’aldilà come dimostrano alcuni affreschi delle tombe di Tarquinia.
Gli Etruschi furono anche grandi esportatori: imbarcazioni cariche di anfore vinarie solcavano il Tirreno, e a Cap d’Antibes nel relitto di una nave sono state trovate 170 anfore di Vulci. Sia nei conviti greci che in quelli romani il vino si beveva mescolato con acqua, molto probabilmente a causa della sua altissima gradazione alcolica dovuta alla vendemmia tardiva. Dal mondo romano sappiamo che l’uva veniva raccolta in una vasca (lacus vinaria) dove si procedeva alla pigiatura; quindi, una volta colmata questa vasca, si aspettava che il mosto si separasse dalle vinacce e, mentre quest’ultime, quando affioravano, venivano torchiate, il mosto passava in una vasca sottostante. In questo secondo lacus, dove poi confluiva anche il mosto delle vinacce torchiate, aveva luogo la fermentazione cosiddetta tumultuosa. Dopo sette o otto giorni si travasava il mosto in grossi doli interrati dove si completava il processo di fermentazione.
Il vino più ordinario veniva consumato o venduto appena limpido, attingendolo direttamente dai doli (vinum doliare), quello di qualità o destinato alla vendita era invece travasato in anfore (vinum amphorarium), dove subiva una serie di trattamenti mirati a garantirne la corretta conservazione. Diffusissimo infatti era l’uso di addolcirlo con il miele e profumarlo con foglie di rosa, viola e cedro, cannella e zafferano.
Bibliografia e sitografia
Massimo Montanari, La cultura del vino in Italia. Verso il 2015, pag. 27
Maurizio Mambrini, Rivista di storia dell’agricoltura. Anno LIV n. 1, Accademia dei Georgofili Firenze, pagg. 147-156, Giugno 2014
Di Renzo, Dal tralcio alla tavola: Simboli, valori e pratiche del vino, 2005
Fonte: Patto in cucina – Prodotti Agroalimentari Tradizionali Tipici Originali per la salute