La “nocciola verde”, un seme millenario pregiato e straordinario
“Israele loro padre rispose: “Se è così, fate pure: mettete nei vostri bagagli i prodotti più scelti del paese e portateli in dono a quell’uomo: un po’ di balsamo, un po’ di miele, resina e laudano, pistacchi e mandorle”[1].
Nell’Antico Testamento è scritto che Giacobbe mandò i propri figli dalla terra di Canaan in Egitto per fare incetta di grano e come dono usò il pistacchio, questo frutto prezioso considerato da sempre una prelibatezza. Gli alberi della “nocciola verde” sono presenti da migliaia di anni nel Medio Oriente, tanto che in Persia, attuale Iran, dove sembra che fosse coltivato già in età preistorica, possedere e commerciare pistacchio equivaleva ad avere un elevato status sociale e ricchezza.
Le leggende narrano che la regina di Saba ne fosse ghiotta e ne avesse una piantagione riservata esclusivamente a lei e ai suoi cortigiani, mentre Nabucodonosor II, re dei Caldei, lo faceva coltivare nei giardini pensili di Babilonia per sua moglie Amytis; Alessandro Magno nel IV secolo a.C. lo portò poi in Grecia, e in Italia la pianta fu introdotta dai Romani sul finire dell’impero di Tiberio, tra il 20 ed 30 d.C., ad opera di Lucio Vitellio, Governatore della Siria[2]. La diffusione della coltura del pistacchio avvenne soprattutto durante l’espansione degli Arabi nel Mediterraneo, tra l’VIII e il IX secolo d.C.; in Sicilia, alle falde dell’Etna, ha trovato un habitat naturale simile a quello da cui proviene e, nonostante le terre aride segnate dalla siccità, cresce quasi senz’acqua regalandoci il suo gusto squisito.
Originariamente si ritiene che fosse stato impiantato nelle province di Agrigento e Caltanissetta, ma famosissimo è tutt’oggi il Pistacchio Verde di Bronte, divenuto presidio Slow Food e prodotto DOP e che caratterizza e tipicizza molti dolci siciliani, in particolare quelli dell’area catanese (a riguardo ricordiamo il famoso gelato, i torroncini, nonché i pasticcini secchi). Dall’arabo derivano i termini dialettali qui utilizzati di “frastuca” e “frastucara“, per indicare il frutto e la pianta, nonché “frastucata” ossia un dolce a base di pistacchio e “frastuchino” il suo colore verde (da “fustuq“). I pistacchieti sono chiamati “lochi” e sorgono su terreni sciarosi ed impervi che, in connubio con le ceneri vulcaniche che li concimano continuamente, regalano ai pistacchi un gusto e un aroma che superano per qualità e proprietà organolettiche la restante produzione mondiale.
Dal greco pistákion (in latino pistacĭum), esso è di color verde vivo sotto una buccia viola, protetto da un guscio sottile e duro, frutto di una pianta longeva (dai 200 ai 300 anni) che ha uno sviluppo molto lento e riesce a produrre solo dopo quasi dieci anni dal suo innesto. Sono censite almeno dieci varietà diverse; in Italia crescono la Pistacia Vera, unica specie che produce frutti eduli, il Terebinto (utilizzato come pianta innesto della Pistacia Vera) e il Lentiscus, pianta sempreverde utilizzata per finalità ornamentali e paesaggistiche.
Il Pistacia Vera è quella cresce in Sicilia sui terreni lavici del versante sudoccidentale dell’Etna, interessando il territorio dei comuni di Bronte, Adrano, Ragalna, Biancavilla e Belpasso. Più del 90% della produzione italiana di pistacchio (equivalente al 2% della produzione mondiale) è costituita dalla cosiddetta Bianca (Napoletana o Nostrale), qui coltivata. La raccolta viene effettuata a mano, un po’ come le olive, avviene negli anni dispari, tra la fine di agosto e gli inizi di settembre. Privati del mallo, si lasciano riposare al sole per 3-4 giorni.
Si ottengono così i pistacchi in guscio, che vengono conservati in ambienti bui ed asciutti; possono essere usati in cucina in svariate forme. Sgusciati, pelati, tostati o salati possono dar vita a primi e secondi piatti deliziosi, ma è nella pasticceria che trova il suo migliore impiego e nella produzione di creme o liquori.
I pistacchi possiedono numerose proprietà curative e benefiche per la salute. Sono ricchi di vitamina A, B1 (o tiamina), B2, B3, B5, B6, C oltre a ferro, fosforo e manganese, potassio e rame. La pianta era nota già alle popolazioni orientali per i suoi principi curativi e come antidoto contro morsi di animali e serpenti velenosi.
Avicenna[3], filosofo e medico di origine iraniana vissuto tra il X e XI secolo, prescriveva già il pistacchio contro le malattie del fegato e lo definiva afrodisiaco; il celebre botanico e medico Castor Durante da Gualdo[4], nel XVI secolo, parlando dei pistacchi dice che “…purgano il petto e le reni, sono utili allo stomaco”, mentre Nicolas Lémery[5] aggiunge infine che “sono umettanti e pettorali, fortificano lo stomaco, eccitano l’appetito, accrescono gli ardori di Venere, sono aperitivi, e molto utili alle persone magre e che patiscono dolori né rognoni. L’uso immoderato dè pistacchi scalda molto, causa vertigini, e mali di capo”. Anche la resina del tronco ha fama di guarire l’ernia inguinale, ma soltanto se adoperata unitamente alla recitazione di apposite formule magiche!
Sulla bontà gastronomica del pistacchio ci sta poco da dire: in versione salata, dolce o semplicemente come frutta secca da sgusciare e sgranocchiare, è uno di quei gusti inconfondibili che non si possono non amare.
[1] Genesi 43:11
[2] Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, Cap. X e XIII
[3] Il canone della medicina
[4] Il tesoro della sanità, Roma 1586
[5] Trattato degli alimenti e della maniera di conservarli lungamente in sanità, Venezia 1734