Il ritorno alle origini, al si stava meglio quando si stava peggio: ecco quello che succede alla società moderna, che vede nel “neoruralismo” la fuga dalle città e dal caos della globalizzazione. Si torna quindi non solo alla tranquilla e sana vita di campagna, ma alla genuinità e bontà dei prodotti alimentari, attraverso cui si soddisfano il palato, la salute e la psiche. Ecco il fenomeno del local-food o “cibo locale”, oggi più che mai strettamente collegato allo sviluppo turistico ed economico di un territorio
Prodotti tipici, locali, a km zero, oggi, sono tutti sinonimi di qualità. Sono cibi e ricette cha rappresentano una riscoperta alimentare, e in alcuni casi anche un’invenzione recente; essi si sono inseriti in un circuito ben definito, venendo spesso “marchiati” a garanzia della loro provenienza e come simbolo della loro autenticità e legame col territorio.
Nonostante ci professiamo onnivori, noi non mangiamo tutto. Quello che ci piace o non ci piace del cibo è legato al valore simbolico che noi diamo ad esso attraverso i processi di culturizzazione. I cibi hanno un significato culturale notevole, non sono solo aggregati nutrizionali, materie prime, ma molto di più. L’antropologo statunitense Marvin Harris sosteneva che “buono da pensare è buono da mangiare”[1]: noi mangiamo ciò che è “culturalmente” commestibile, “il cibo, per così dire, deve nutrire la mentalità collettiva prima di poter entrare in uno stomaco vuoto”[2], poichè inserito nelle strutture mentali di un popolo.
Inserendoci in questo contesto antropologico, l’ormai famoso local-food, il cibo locale, è diventato dunque simbolo di una realtà autentica, in antitesi con quella quotidiana, nato come mezzo di valorizzazione di un luogo o di un territorio e come pratica gastronomica di successo. La cultura varia a seconda dei luoghi e del tempo, e con essa anche il turismo enogastronomico è diventato una forma particolare di turismo ad interesse speciale, o se vogliamo proprio culturale, che implica lo spostarsi in una località nota per una produzione agroalimentare di pregio della quale si vuole fare esperienza gustativa ed un eventuale approvvigionamento.
Inoltre, questa pratica rende possibile il contatto con il luogo, i protagonisti della produzione e le tradizioni del posto. L’Italia peraltro, è un posto meravigliosamente variegato dal punto di vista della biodiversità e della cultura, e quindi particolarmente vocata a questo tipo di attività. Il local-food rientra nell’ambito di quel fenomeno identificato come “neoruralità”: con questo termine si intende un ritorno al mondo rurale, non necessariamente connessa all’agricoltura e alla vita dei campi. E’ una fuga dalla città, è ripristino del folklore. Le sagre di paese rappresentano una manifestazione che sta andando molto di moda ultimamente e di cui il local-food è protagonista: queste sono state “culturalmente risemantizzate” come buone sia da pensare che da mangiare, riscuotendo così un notevole successo.
Ma cosa spinge le persone a tornare in questi posti lontano dalle città, legati a piatti antichi e se vogliamo “poveri”, che prima nessuno avrebbe mangiato?
Semplice. Stiamo andiamo a ritroso nel tempo, nel passato, alla ricerca di ciò che nel presente non abbiamo. Siamo privi di certezze, i valori vengono meno e per questo ci rifacciamo al monto contadino, quello del Medioevo che abbiamo eletto radice della nostra società. Gli eventi enogastronomici sono sempre più presi d’assalto da turisti e non, perché c’è la voglia e la curiosità di provare, assaggiare, “degustare” sapori legati a quella tradizione a cui vogliamo restare ancorati.
La modernità è portatrice di razionalità, globalizzazione, progresso, industrializzazione, urbanizzazione, tutte cose che il postmodernismo rifiuta. C’è bisogno di retroproiezione, di recuperare i valori dal passato dove erano vissuti appieno. Pensiamo che i tempi di una volta siano migliori dei nostri, c’è la sindrome dell’età dell’oro.
Il local-food si contrappone alla nouvelle cuisine della fine del secolo scorso, dove, da una cucina slegata dal territorio, manifesto della globalizzazione che punta ad avere il meglio del cibo, si passa ad una espressione gastronomica “povera” ma “vera”, perfettamente calata in un contesto geografico e fatta di ingredienti “sani” e “naturali”.
Oltre all’esperienza culinaria, alla neoruralità e al ritorno alle origini e oltre al fenomeno turistico che ne deriva, possiamo parlare anche di sostenibilità, perché questo tipo di cultura si basa sulla valorizzazione della biodiversità di cui, come dicevo prima, l’Italia può andare fiera. La sostenibilità è legata alla natura, all’ecologia, e diventa etica. Per cui è la capacità che avranno le generazioni future di sfruttare le nostre risorse; dunque, attraverso questo ritorno al passato, comunichiamo in modo positivo concetti quali la genuinità, l’autenticità, l’unicità, la territorialità, l’identità e dunque l’eccellenza.
[1] Marvin Harris, Buono da mangiare, Torino, Einaudi 1990, pag. 3
[2] Marvin Harris, Buono da mangiare, Torino, Einaudi 1990, pag. 4