Storie, tradizioni e ricette del couscous

Sembra che l’origine del couscous (o cuscus) sia da attribuire all’epoca di Salomone. Il mito narra che il biblico Re d’Israele, innamorato follemente della bellissima Regina di Saba, passasse notti insonni pensando al suo amore irraggiungibile. Fu così che il medico di corte, vedendo il sovrano deperire ed interpellato dai fedeli cortigiani, gli preparò un impasto di semola di grano duro come ricostituente, insaporito con diverse verdure. Fu così che il Re Salomone dopo quel pasto riprese forza; regnò ed amministrò con saggezza e giustizia, e conquistò anche la sua Regina.

La semola del couscous

Secondo la leggenda, dunque, nasce come piatto da re, legato ad una storia d’amore e simbolo di pace; ma storicamente è nel Nord Africa che trova le sue origini, nello stato del Maghreb dove vivono le tribù Berbere, gli “uomini liberi” (Imazighen), pastori e contadini che coltivano da secoli frumento, orzo, miglio e sorgo, che frantumano, setacciano, e lavorano a mano, e con cui preparano il couscous, impastato con acqua o latte e qui chiamato in modi diversi (sekso, kskso, kuskus o kuski).

Per secoli il cuscus ha sfamato i nomadi, le cui donne solevano radunarsi in gruppo per prepararlo: oggi in questi paesi viene consumato per tradizione alla sera, mentre in Marocco nel primo pomeriggio, per pranzo. Ciò che rende il couscous un cibo “da condivisione” è l’usanza di mangiare tutti da un unico piatto, con la famiglia o con chi viene considerato parte della comunità, utilizzando le mani, o meglio le dita, servendosi con pane non lievitato.

Fondamentalmente è un alimento povero, che da semplice può diventare elaborato a seconda dei condimenti; viene mangiato quotidianamente o durante festeggiamenti e celebrazioni, come i matrimoni o le nascite dei figli, caricandosi così di valenze simboliche. Nel mondo islamico è un vero e proprio rito religioso: pietanza offerta ai poveri in occasione dell’elemosina, è anche il piatto del pranzo del venerdì (giorno della preghiera collettiva musulmana) e delle occasioni speciali, come la festa del ritorno dei pellegrini dalla Mecca. Il Corano dispone che il couscous venga mangiato con le sole tre dita della mano destra, per distinguersi dal diavolo che lo mangia con una, dal Profeta con due e dall’ingordo con cinque.

Il couscous è diventato la pietanza per eccellenza dei popoli del Mediterraneo, che ben conserva le sue radici anche avendo oltrepassato i confini della terra di origine. Infatti, attraverso i popoli arabi e con l’espansione islamica, ha raggiunto i posti più lontani, dal cuore dell’Africa all’Egitto, Palestina e Yemen, dal Marocco alla Sicilia, fino alla Spagna e Francia. Ogni paese lo ha reso proprio facendolo diventare tradizione, arricchendolo con gli ingredienti tipici della propria cucina. Il nome potrebbe derivare dal greco koskinon, cioè “setaccio”; veniva preparato con il Triticum durum, il grano duro ridotto a farina granulosa, prodotto attraverso una macinatura grossolana.

L’“incoccìatura” della semola è anch’essa parte integrante di riti sacri tradizionali della gente berbera; tutto il lavoro viene svolto da alcune donne, alle quali è affidato il ciclo della vita (le levatrici). Per la preparazione della semola occorre un grande piatto basso e largo, solitamente di legno o di terracotta smaltato a pareti svasate, utilizzato anche come piatto di portata; le donne, sedute per terra, vi versano due misure di semola, un bicchiere d’acqua, un grosso pizzico di sale e qualche volta piccole quantità di farina.

Per questo lavoro certosino tutto dipende dall’abilità delle massaie, munite di tanta, tanta pazienza; si deve lavorare la semola fino ad ottenere delle palline piccolissime, che vengono riversate nel tamiz, un contenitore fondo di vimini dove si procede alla setacciatura. Per conservarlo poi, viene steso su teli bianchi, ancora fumante, affinché il sole lo asciughi per bene.

Preparazione della semola per il couscous (Fonte: www.guidasicilia.it/rubrica/c-era-una-volta-il-couscous/1001261)

La cottura del couscous è davvero molto meticolosa: va cotto a vapore nella couscoussiera, formata da una pentola, in cui si prepara un brodo fatto con la carne, il pesce o semplicemente con le verdure, secondo la tradizione del luogo. Sopra di questa, vi è un’altra pentola forata sul fondo, la kaskas; in essa il couscous cuocerà a vapore.

Le due pentole vanno unite, per non disperdere il vapore, con uno strofinaccio immerso in farina e acqua chiamato kfìla. Prima di essere cotto, però il couscous è sistemato in un piatto largo e basso, dove viene cosparso di un bicchiere abbondante di acqua salata e lasciato riposare per 20 minuti, girandolo ogni tanto con le dita. Quando il brodo della pentola inferiore bolle, la semola viene versata nella pentola superiore, dove rimarrà a cuocere a vapore per 15 minuti, coperto da una pezza bagnata. Quindi lo si versa in un piatto largo e basso bagnandolo con un bicchiere d’acqua fredda e rigirandolo per evitare che formi dei grumi. Infine, dopo averlo fatto riposare per 10 minuti, viene rimesso nella pentola superiore per una seconda cottura a vapore di circa 10 minuti; quindi lo si riversa nel piatto largo e basso e lo si lascia riposare per ancora 10 minuti. Dopo un’altra breve cottura a vapore di non più 5 minuti, il couscous è pronto per essere servito in tavola.

Couscoussiera in terracotta (Fonte: www.ricettedigusto.info/cous-cous-di-pesce-alla-trapanese/)

Solitamente viene accompagnato da carni in umido e/o verdure bollite (anche pesce in umido, come in Sicilia). In Tunisia si usa il pomodoro, ed è reso piccante grazie ad una salsa detta harissa; in Marocco il condimento è formato da un miscuglio di spezie dolci come la cannella o la paprika. Tipico anche di questa regione è la combinazione di sapori salati e dolci, con l’uso di miele ed uvetta, anche con la carne; in Algeria, invece, è più rustico e più semplice.

In Giordania, Libano e Palestina viene chiamato maftūl (cioè ritorto per via della torsione o rotazione della mano del cuoco che lo crea) ed è come quello africano poiché si usa il semolino, solo con grani più grandi. In Italia il couscous è preparato nel trapanese, in Sicilia, con una sorta di zuppa di pesce. Il nome nel dialetto locale è cùscusu, inserito fra i PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) della regione. Dalla Sicilia è stato portato a Livorno (il cuscussù d’agnello) a Genova, e lo troviamo anche in Sardegna. Altra versione in particolare a Marsala, Mazara del Vallo, ma anche nelle Egadi, sono i frascatula.

Sostanzialmente è un piatto di recupero che vedeva il riutilizzo di parti della semola del couscous “mal incocciate”, che le donne non buttavano ma riutilizzavano per preparare una minestra con verdure, di norma carciofi, cavolfiori o fave. La tradizione fa risalire questo piatto al periodo della dominazione francese: il nome trarrebbe origine dal francese flasque, cioè morbido, storpiato in dialetto frasc. Oggi è un piatto che viene preparato lavorando intenzionalmente la semola per ottenere un resa più grossolana e viene condito con sugo di verdure, con sugo d’aragosta o con brodo di zuppa di pesce.

Infine il cascà o cashcà è una variante del couscous alle verdure, tipico della cucina di Carloforte e Calasetta, nella nella regione del Sulcis (Sardegna meridionale), derivato dal cuscus tunisino, detto “tabarchino” (per via della colonizzazione dell’isola di Tabarka, nei pressi di Tunisi). Gli elementi base della sua preparazione erano, oltre alla semola opportunamente lavorata, il cavolo cappuccio o il cavolfiore e i ceci. Col tempo il piatto si è evoluto, e alla ricetta base si sono aggiunte le varie verdure di stagione e la carne suina.

 

 

Sitografia

attpt.siciliambiente.it

 

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Giulia Cosenza

Calabrese DOC, sommelier con master in Cultura dell'alimentazione e delle tradizioni enogastronomiche

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