Verdeca: la scoperta di questo vitigno pugliese nel vino omonimo delle cantine Menhir Salento e i loro fantastici abbinamenti gastronomici
Sono piuttosto incerte le origini di questa varietà a bacca bianca, la più diffusa nell’intera regione, che riveste un ruolo importante nella viticoltura pugliese e non solo.
Le uniche notizie certe attestano una sua diffusa e storica coltivazione nelle provincie di Taranto e Bari, in particolare nella zona della Valle dell’Itria fra Martina Franca, Crispiano, Cisternino, Alberobello e Locorotondo, dove solitamente la sua presenza nei vigneti è associata a quella del Bianco d’Alessano.
Tra i sinonimi più conosciuti ci sono quelli di Verdone, Verdicchio Femmina, Verdera e Verdisco Bianco, nonché Vino Verde, che sembra richiamare una ipotetica affinità con il vitigno portoghese Alvarinho, presente appunto nella zona del Vihno Verde.
Nel passato la Verdeca veniva usata soprattutto come base per vini dolci o per vermouth, da vendere alle grandi cantine.
La pianta predilige i terreni profondi, poveri e rocciosi e non ha particolari esigenze climatiche e pedologiche.
Come moltissimi vitigni del sud, anche la Verdeca molto probabilmente ha la sua origine nella vicina Grecia.
Impiegata solo per la vinificazione, la zona di massima diffusione rimane quella storica sopra citata, dove la Verdeca è contemplata nel disciplinare delle DOC Gravina, Locorotondo, Martina Franca, Ostuni e San Severo.
Una sua presenza sporadica è rintracciabile anche nell’area della DOC Vesuvio, dove entra nella composizione del Bianco e del Lacryma Christi del Vesuvio Bianco.
Il grappolo è di media grandezza, conico e dotato di una o due ali. Anche l’acino è di dimensioni medie, sferico, con buccia ricca di pruina, tenera, di medio spessore e di colore verde biancastro.
Giunge generalmente a piena maturazione nella prima metà di settembre.
Negli ultimi anni, grazie anche alla lungimiranza di alcuni viticoltori locali, si è registrato un notevole aumento di interesse per il vitigno Verdeca, che vinificato in purezza seguendo rigorose pratiche di cantina, permette di ottenere risultati molto promettenti.
E’ il caso delle cantine Menhir Salento di Minervino di Lecce, un’azienda giovane fatta da giovani che in breve tempo è riuscita ad imporsi sul mercato vitivinicolo salentino, grazie anche alla collaborazione dell’enologo Vincenzo Laera.
Una realtà fondata da Gaetano Marangelli in un territorio scolpito fra pietre assolate ed uliveti a perdita d’occhio, non lontano dal mare di Otranto e Santa Cesarea Terme, che sul buon vino ha voluto puntare, coltivando e valorizzando questa natura quasi selvaggia, ma molto affascinante;
il nome evoca l’antico passato di queste terre su cui sorgono dolmen e menhir, frantoi sotterranei, antiche corti e masserie.
L’osteria Origano è situata all’interno della cantina in un antico palazzo baronale del ‘700 ed accoglie ogni anno migliaia di clienti, proponendo piatti con prodotti freschi e naturali di ottima qualità.
Il menù degustazione è fatto di ingredienti semplici ma accostati con sapienza ed originalità, fortemente legati al territorio, che diventa un autentico percorso esperenziale.
Ad ogni piatto un vino, ed è qui che scopro con piacere, assieme alle altre etichette, la loro profumatissima Verdeca in purezza, un IGT Puglia di 13° di un giallo paglierino scarico con delicati riflessi dorati, ma dai sentori intensi di lime, acacia, frutti tropicali, fiori bianchi rupestri ed erbe aromatiche come il timo, molto minerale;
in bocca ha un bel corpo, un’ottima acidità e freschezza ed una avvolgente sapidità ed equilibrio.
Prodotti da agricoltura biologica, sono vini che rappresentano al meglio questo territorio e le sue peculiarità, con un loro carattere definito e deciso.
Se volete scoprire questo lato culturale e gastronomico del Salento, non vi resta che venire qui tra “lu sule, lu mare e lu ientu”.
Menhir Salento e Origano – osteria & store
Via G. Scarciglia 18, Minervino di Lecce (Le)
Telefono: (+39) 0836.818199
www.facebook.com/vinimenhirsalento
Bibliografia
Guida ai vitigni d’Italia, Slow Food Editore, pag. 479