Dall’antica Grecia a Roma feste e rituali in onore di Dioniso

Le feste in onore di Dioniso sono attestate più o meno sporadicamente in tutta la Grecia, ma è nell’area ionico-attica che esse assumono particolare importanza. Ad Atene durante il V secolo sono attestate quattro festività principali: Lenee, Antesterie, Dionisie “agresti” e “grandi” Dionisie.

Le Lenee (Aristot. Ath. Pol. 57,1), forse le feste più antiche, si celebravano nel mese di Gamelion, tra gennaio e febbraio, ed avevano carattere locale. Esse consistevano in una processione per le vie di Atene condotta dall’arconte (basileus) e da sovrintendenti dei misteri eleusini. Seguivano competizioni teatrali relative soprattutto alla commedia.

Le Antesterie (Thuc., II 15, 4) si svolgevano alla fine di febbraio, nel mese di Anthesterion, e durava tre giorni, ciascuno con un nome preciso: Pithoigia, Choes e Chytroi. Il primo giorno era riservato all’apertura degli orci con il vino dell’ultima vendemmia, che si libava in onore del dio; durante il secondo si beveva il vino, coronati da ghirlande, da brocche che venivano poi dedicate a Dioniso.

In questo stesso giorno la moglie dell’arconte re, nella veste di sacerdotessa, si univa simbolicamente a Dioniso celebrando attraverso riti segreti un matrimonio sacro con la divinità. Nel terzo giorno si celebrava il dio nella sua componenza ctonia di signore delle anime, e si consumavano semi bolliti come auspicio di fertilità. Nel mese di Poseidon, tra dicembre-gennaio, ogni paese o demos dell’Attica celebrava la propria festa in onore di Dioniso: le Dionisie “agresti”, che più di tutte conservano il primitivo aspetto fallico delle processioni (Aristoph., Ach. 202; 237-239; Athen., Deipn. 24, 621f; 622b-d).

Le “grandi” Dionisie o Dionisie cittadine si svolgevano ad Atene tra marzo ed aprile, nel mese di Elaphebolion, ed erano una festa panellenica: tutti i greci vi prendevano parte; gli alleati della lega di Delo portavano in questa occasione il loro tributo; anche le ostilità erano sospese per questa occasione. La statua di Dioniso Eleuthereus era precedentemente trasportata in un modesto tempio fuori della città, sulla strada verso Eleutere. Da lì partiva una processione, allo scopo di rievocare la scena dell’arrivo della statua del dio ad Atene dal demo di Eleutere. Il grande corteo sfilava quindi per le vie di Atene con accompagnamento di danze e canti satirici.

Enormi falli erano portati in processione a simboleggiare il dono della fecondità, sfilavano anche gli animali per il sacrificio che sarebbe avvenuto presso il recinto del teatro. Dopo il sacrifico dei tori sull’altare del dio, ai cittadini veniva offerto un lauto banchetto. In serata aveva luogo il komos, cioè un corteo sfrenato e tumultuoso nel quale gli uomini, molto probabilmente mascherati e travestiti, suonavano, danzavano e cantavano alla luce delle torce, abbandonandosi a lazzi e oscenità di vario genere ritualmente consentite. L’indomani avevano inizio gli agoni tragici: dapprima si svolgeva quello dei ditirambi, canti in onore di Dioniso, che però potevano evocare diversi temi mitici, eseguiti da cori di adulti e di giovani che danzavano ritmicamente al suono del flauto. Seguiva, per la durata di tre giorni, l’agone tragico col dramma satiresco, e l’agone comico.[1]

In Etruria, sin dalla seconda metà del VII secolo a.C., la divinità agreste Fufluns si identificava progressivamente con Dioniso, nel suo carattere di divinità legata al vino e all’ebbrezza, attraverso il sincretismo greco. Lo dimostra ed esempio il culto di Fufluns Pachies attestato nel V secolo a.C. a Vulci: Pachies è un imprestito dell’epiclesi di Dioniso Baccheios, nata a Corinto e Sicione con evidente riferimento al vino e alla vite.[2] L’introduzione dell’iconografia greca di un Dioniso vecchio e barbato si colloca però intorno al 530 a.C. Questo modello iconografico appare anche nel Lazio, dove Liber Pater, divinità della natura feconda e della virilità assume gli stessi caratteri: le più antiche attestazioni in questa regione risalgono alla seconda metà del IV secolo, rivelando un maggior conservatorismo rispetto all’Etruria.

Liber viene venerato con il nome di Bacco, derivato, come abbiamo visto, dall’epiclesi della divinità greca. La figura di Dioniso si sovrappone sempre più marcatamente a quella di Liber per il diffondersi di una religiosità a carattere iniziatico importata dall’Italia meridionale. Il senatus consultum de bacchanalibus del 186 a.C. testimonia l’entità e la diffusione del fenomeno di assorbimento delle valenze misteriche della religiosità dionisiaca.[3] L’introduzione dei baccanali in Etruria è attribuita da Livio (XXXIX, 8, 3) ai Greci della Campania, e dall’Etruria sarebbero stati poi importati a Roma. Dalla fine del IV secolo a.C. questa forma di religione misterica ed iniziatica legata al culto di Dioniso si diffonde nel mondo etrusco, com’è evidente da monumenti funerari (sarcofagi e crateri) di questo periodo, in cui ricorre spesso la simbologia dionisiaca del thiasos.

Mosaico da Djemila-Cuicul in Algeria (inizi III secolo d.C.) – Fonte: www.traveladventures.org

L’introduzione delle credenze dionisiache nella concezione escatologica etrusca appare come diretto apporto della Magna Grecia, in seguito alla ripresa del movimento dionisiaco nel mondo greco alla fine del V secolo, avvalorata dalla tradizione liviana. Associazioni di Baccanti sono documentate nel territorio tarquiniese almeno dalla metà del III secolo a.C. e fino al 186 a.C. se non oltre.[4]

In ogni caso la proibizione dei Bacchanalia a Roma nel 186 a.C. non impedì che Bacco continuasse ad essere oggetto di culto in tutto l’Impero, nella forma di culto misterico, almeno fino al III secolo d.C., come testimoniano gli affreschi della Villa dei Misteri a Pompei (età di Cesare), i rilievi a stucco della Villa Farnesina (età augustea) e il mosaico da Djemila-Cuicul in Algeria (inizi III secolo d.C.).

In quanto culto misterico, il Dionisismo consisteva in cerimonie di iniziazione a carattere volontario, personale e segreto, nelle quali l’ammissione e la partecipazione dipendevano da rituali personali da celebrare sull’iniziando. Questi riti miravano ad un cambiamento di stato mentale attraverso l’esperienza del sacro. Il cambiamento riguarda quindi il rapporto con la divinità, e in nessun modo corrisponde a un cambiamento esteriore. Attraverso la vicinanza al divino, gli iniziati aspirano ad una forma di salvezza: gli Inni Orfici ad esempio invocano salute e ricchezza, un anno felice, buona fortuna in mare, una vita piacevole e che la morte giunga il più tardi possibile. I misteri sembrano quindi assicurare da un lato cure e immunizzazioni rispetto alle esigenze pratiche, e dall’altro generiche garanzie di beatitudine dopo la morte.[5]

Attraverso ritrovamenti epigrafici, come la lamina d’oro di Hipponion[6], l’iscrizione da Cuma[7], quella sullo specchio da Olbia[8], è stato possibile far luce sul rapporto esistente tra Dionisismo e Orfismo. Nonostante i numerosi punto oscuri, gli studiosi sono concordi nell’affermare che in ambito sia tirrenico che ellenico esisteva un legame molto stretto tra gli aspetti misterici del dio dell’ebbrezza e il cantore di Tracia, già a partire dal V secolo a.C: alla base del pensiero orfico era appunto il mito di Dioniso ctonio, nato da Persefone e ucciso dai Titani.[9] Questi, coperti di gesso, avevano attirato il giovane dio mostrandogli alcuni giocattoli: un rombo, una trottola, dei bambolotti, dei dadi, uno specchio.

Laminetta d’oro di Hipponion, V secolo a.C. circa, Museo Archeologico Nazionale “Vito Capialbi” (Vv) – Fonte: it.wikipedia.org

E mentre Dioniso si specchiava, i Titani lo smembrarono, lo cucinarono e lo divorarono interamente, ad eccezione del cuore. I carnefici furono puniti da Zeus con la folgore, mentre il dio rinacque a nuova vita.[10] Purtroppo il segreto che circondava questi riti lasciano solo intravedere ciò che poteva accadere al momento dell’iniziazione. Pare che gli oggetti “portati dentro” nei misteri corrispondessero a quelli dello smembramento (Diod. III 62, 8); tra questi poteva esserci il fallo del liknon, visibili sugli affreschi della Villa dei Misteri. Gli iniziati portavano corone intrecciate di rami di pioppo nero, poiché quest’albero cresceva negli Inferi, il luogo di Dioniso ctonio.

 

Iscrizione da Cuma, V secolo a.C. circa, Museo Archeologico di Napoli (Fonte: http://books.openedition.org/efr/2724?lang=it)

Si potrebbe ipotizzare che la collocazione sul trono di Dioniso ctonio ad opera di suo padre Zeus e i balocchi e lo specchio a lui recati nel mito facessero riferimento ad uno schema di iniziazione (Clem. Alex., Protr. 17, 2). All’interno del culto dionisiaco giocava un ruolo importante la possessione estatica del dio, che procurava a chi lo sperimentava un vero e proprio cambiamento di coscienza.  La follia era un tratto distintivo dei bakcheia, soprattutto per effetto del vino e della musica. Alla fine di questa esperienza ci si sentiva felici, liberi da qualsiasi dolore (Demost. XVIII 259-260; XIX, 199; 249, 281; Aristot., Pol. 1342a, 14 ss.).

Come testimonia il fenomeno dei Baccanalia a Roma, esistevano per il Dionisismo delle forme organizzative, i thiasoi bacchici, che potevano durare alcune generazioni. I partecipanti erano impegnati in attività comuni, soprattutto n sacrifici col successivo pasto cerimoniale e in pompai, cortei che giravano per la città. In ogni caso i membri rimanevano liberi di abbandonare il gruppo, senza rischi di subire maledizioni o traumi. Allo stesso modo era possibile essere iniziati o sacerdoti di più divinità, senza cadere per questo in eresia, dal momento che gli dèi non erano gelosi l’uno dell’altro.

 

 

[1] C. Gasparri, Dionysos, in Lexicon Iconographicon Mitologiae Classicae, III, Zürich-München 1986, pagg. 414-514
[2] M. Cristofani, M. Martelli, Fufluns Pachies. Sugli aspetti del culto di Bacco in Etruria, in Studi Etruschi 46, 1978, pagg. 119-133
[3] C. Gasparri, Dionysos/Bacchus in Lexicon Iconographicon Mitologiae Classicae, III, Zürich-München 1986, pagg. 540-560
[4] M. Cristofani Dionysos/Fufluns, in Lexicon Iconographicon Mitologiae Classicae III, Zürich-München 1986, pagg. 531-540; M. Cristofani, Mystai kai backoi. Riti di passaggio nei crateri volterrani, in Prospettiva 80, ottobre 1995, pagg. 2-14
[5] W. Burkert, Antichi culti misterici, Roma-Bari 1991
[6] La laminetta di contenuto escatologico è databile al 400 a.C. circa. Fu rinvenuta nella necropoli di Hipponion (Vibo Valentia) e contiene un testo di sedici righi che recita: “A Mnemosyne è sacro questo (dettato): (per il mystes) quando sia sul punto di morire. Andrai alle case ben costrutte di Ade: v’è sulla destra una fonte, accanto ad essa si erge un bianco cipresso; lì discendono le anime dei morti per avere refrigerio. A questa fonte non accostarti neppure; ma più avanti troverai la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi custodi, ed essi ti chiederanno, in sicuro discernimento, perché mai esplori la tenebra dell’Ade caliginoso. Dì: <(Son) figlio della Greve ed del Cielo stellato; di sete son arso e vengo meno: ma datemi presto da bere la fredda acqua che viene dal Lago di Mnemosyne> Ed essi son misericordiosi per volere del sovrano degli Inferi, e ti daranno da bere (l’acqua) del Lago di Mnemosyne; e tu quando avrai bevuto percorrerai la sacra via su cui anche gli altri mystai e bacchoi procedono gloriosi”.
[7] Il documento proveniente da Cuma, ora conservato presso il Museo Archeologico di Napoli è un divieto di sepoltura databile, su base paleografica, al 450 a.C. circa. Recita: “Non è lecito che qui giaccia (sepolto) se non colui che si è fatto bacchos”.
[8] A. Bottini, Archeologia della salvezza. L’escatologia greca nelle testimonianze archeologiche, Milano 1992
[9] K. Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, Milano 1963
[10] M. Detienne, Dioniso e la pantera profumata, Roma-Bari 1983
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Giulia Cosenza

Calabrese DOC, sommelier con master in Cultura dell'alimentazione e delle tradizioni enogastronomiche

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