Come nascono i ribelli “Bordeaux di Toscana”: i Supertuscan e la fortuna di questi vini che hanno rivoluzionato il panorama enologico della regione
Una volta era il Chianti.
Il barone Bettino Ricasoli, imprenditore illuminato del XIX secolo, appena ventenne, cominciò a Brolio ricerche e sperimentazioni, con l’obiettivo di produrre nella zona del Chianti un vino di alta qualità, capace di competere a livello internazionale con i grandi vini francesi, all’epoca protagonisti indiscussi.
Alla fine, il risultato dei suoi studi fu un disciplinare che stabiliva che il sangiovese dovesse essere il vitigno principale assieme al canaiolo e alla malvasia[1]:
nel 1872 nasce così il Chianti Classico, il vino simbolo della regione.
Ma si sa che le cose cambiano.
Alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, dopo circa 100 anni, alcuni produttori toscani si sentirono un po’ stretti nella rigidità del disciplinare del Chianti Classico, a cui però dovevano attenersi affinché i loro vini potessero fregiarsi della denominazione di origine.
Fu così che avvenne la rivoluzione: il marchese Mario Incisa della Rocchetta, grande appassionato di vini francesi, dopo aver portato da Chateau Lafite alcune barbatelle di cabernet sauvignon e di cabernet franc, decise di sperimentare nuove strade vitivinicole e, con l’aiuto del famoso enologo Giacomo Tachis, produsse il Sassicaia, l’antesignano dei Supertuscan.
Puntò tutto sul territorio, sui suoi vigneti di Bolgheri in provincia di Livorno, a nord della Maremma.
Il terreno su cui veniva (e viene) prodotto il Sassicaia aveva proprio caratteristiche sassose, molto simili a quelli della zona di Graves (che appunto significa “ghiaia”), vicino a Bordeaux.
Il risultato fu un vero e proprio bordolese di Toscana, un vino che ha raggiunto livelli spettacolari. La prima annata uscì sul mercato nel 1968, e furono prodotte 3000 bottiglie;
la vinificazione avvenne in due tini piccoli aperti, in legno di rovere, dalla capacità ognuno di circa 20 hl e l’invecchiamento fu effettuato in caratelli di rovere di Slavonia dalla capienza, all’incirca, delle barriques.
Non venne capito subito e fu massacrato sia dai critici che dal pubblico: questo vino aveva solo bisogno di tempo per mostrare tutte le sue peculiarità e il suo stato d’arte.
I tannini taglienti e il corpo robusto maturando lasciavano spazio a quella raffinata setosità che diventa “poesia nel bicchiere”, e che contraddistingue questo costosissimo nettare.
La paternità del termine “Supertuscan” si deve alla critica anglosassone degli anni ‘80, per indicare dei vini aziendali che avevano riscontrato uno straordinario successo commerciale sul mercato internazionale, pur non appartenendo a nessuna denominazione, e decretandone così la sua fortuna.
Prima ci fu il Vigorello di San Felice, che nacque parallelamente al Sassicaia nel 1968, un sangiovese in purezza prodotto nel cuore del Chianti Classico, al di fuori del disciplinare di produzione;
poi il Tignanello, datato 1971, fu il vino simbolo del “rinascimento enologico” italiano, frutto di scelte innovative e audaci, che tra i suoi padri ha avuto ancora il celebre Tachis, lo storico direttore delle Cantine Antinori:
si utilizzò la fermentazione malolattica e si passò all’invecchiamento nelle barriques anziché nelle botti.
Formalmente era un semplice IGT, vale a dire un vino da tavola: sangiovese, cabernet sauvignon e cabernet franc.
La vera innovazione fu quella di produrre un vino da invecchiamento, importante quanto un Bordeaux francese, ma che avesse un vitigno autoctono come il sangiovese alla base, quindi molto legato al suo “terroir”.
Da lì fu un crescendo, e il fenomeno Supertuscan diventò inarrestabile: sono nati così i Chianti Classico con sangiovese in purezza, in blend, o vini toscani completamente di taglio bordolese che hanno seguito la scia del Sassicaia.
Secondo alcuni, i Supertuscan furono la risposta dei produttori alla débâcle della Toscana degli anni ’70, quando alla qualità si preferiva la quantità;
negli anni ’80, poi, con lo scandalo del metanolo e il disciplinare del Chianti che prevedeva ancora l’utilizzo di uva a bacca bianca, si rese necessaria una svolta, che ha portato le aziende a produrre vini di qualità che il consumatore potesse apprezzare in un rapporto di fiducia, non convenzionali e non mediati da denominazioni.
I vitigni bordolesi si sono adattati benissimo nel tempo, diventando parte integrante del paesaggio vitivinicolo toscano ed esprimendo al massimo le caratteristiche di questo prezioso terroir.
Vini “alternativi” come Sassicaia, Ornellaia, Solaia, Tignanello, Masseto e via dicendo, hanno fatto la storia della regione, tra le migliori al mondo in produzione enologica, amati moltissimo soprattutto all’estero che li ha scoperti e portati ai loro altissimi livelli mediatici e commerciali.